La distruzione dello Stato Sociale attraverso la catastrofe delle liberalizzazioni privatizzazioni in Italia
di Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà www.movisol.org
Grazie all’analisi di seguito proposta, l’idea per cui le liberalizzazioni e le privatizzazioni portino benefici
all’economia, viene totalmente confutata.
Si dimostrerà che:
-
le liberalizzazioni portano ad un aumento dei prezzi;
-
le liberalizzazioni portano alla distruzione di posti di lavoro ed all’abbassamento degli stipendi dei lavoratori e
dei fatturati delle piccole imprese; -
la liberalizzazione-privatizzazione dell’impresa pubblica nel periodo 1992-2000 non è stata conseguenza
dell’inefficienza economica; -
i processi di liberalizzazione-privatizzazione non hanno minimamente migliorato la capacità produttiva italiana;
-
le liberalizzazioni favoriscono i concentramenti di capitale in poche ricchissime mani;
-
l rendimento finanziario delle aziende privatizzate è stato peggiore rispetto alla generalità del mercato
finanziario italiano.
Il processo di liberalizzazioni-privatizzazioni prese avvio in Italia nel 1992. La motivazione ufficiale che portò a questa fase di stravolgimento degli assetti proprietari dell’impresa pubblica nazionale fu quella dell’elevato debito pubblico che andava ridotto. A ciò si aggiungeva e si legava, la questione di una maggiore “libertà” del mercato, con cui la preminente presenza pubblica in settori strategici e non, confliggeva. Questa stagione prese avvio in concomitanza ad alcuni fatti che resero caldissima la situazione politica e sociale italiana: 1) l’operazione giudiziaria “Mani pulite”, che stravolse completamente il quadro politico italiano portando alla sostanziale sparizione dei partiti che costituivano il cosiddetto Pentapartito; 2) gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino; 3) l’attacco alla lira ed alle altre valute europee
da parte di alcuni insider guidati dallo speculatore George Soros, che portarono ad una forte svalutazione delle stesse ed alla conseguente distruzione del Sistema Monetario Europeo (SME).
Nel gennaio del 1993 l’Executive Intelligence Review pubblicò un documento intitolato “La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni italiane: il saccheggio di un’economia nazionale”. In quello studio, inviato ad alcuni organi di
stampa, alle forze politiche ed alle istituzioni, si delineava un quadro preoccupante di attacco all’economia italiana nel contesto della cosiddetta “globalizzazione dei mercati”, cioè la realizzazione di un unico sistema economico mondiale in cui non vi sarebbe stato più alcun controllo sui movimenti e sulla creazione di capitali. In quel documento si riferiva
di un episodio passato inosservato, e che invece rivestiva una grandissima importanza. II 2 giugno 1992 si svolgeva una riunione semisegreta tra i principali esponenti della City, il mondo finanziario londinese, ed i manager pubblici italiani,
rappresentanti del Governo di allora e personaggi che poi sarebbero diventati ministri o direttori generali nei Governi Amato, Dini, Ciampi, Prodi, D’Alema (ma anche Berlusconi, per quanto riguarda la centrale figura di Mario Draghi). Oggetto di discussione: le privatizzazioni. Questa riunione si tenne a bordo del panfilo della Corona inglese, il “Britannia”.
Alla luce di quanto il complesso finanziario-mediatico-politico va oggi chiedendo – le liberalizzazioni-privatizzazioni appunto – possiamo individuare almeno due fasi di questo progetto che possiamo chiamare “Operazione Britannia”: la prima fase si occupò della svendita5 dell’Iri, di Telecom Italia, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina, Credito italiano, Autostrade,l’industria siderurgica ed alimentare pubblica; la seconda fase – in corso di attuazione – punta invece al settore della previdenza, della sanità, dei trasporti (ferrovie, trasporto pubblico di linea, trasporto navale, taxi), a quello delle utilities (aziende municipalizzate nei settori acqua, elettricità, gas) e ad altre funzioni di rilievo pubblico.
Se al livello dell’economia nazionale l’“Operazione Britannia” mette nelle mani di poche ricchissime famiglie ciò che prima era pubblico, con la dannosa conseguenza di diminuire le entrate dello Stato, i posti di lavoro e dunque il monte
salari, creando così le condizioni per “riformare” in senso peggiorativo e non costituzionale il welfare (sanità,pensioni, giustizia, istruzione, ecc.), è sul superiore livello strategico internazionale che troviamo il grilletto che ha portato all’accelerazione di questa distruttrice fase della storia dello Stato sociale moderno.
Attraverso la finanziarizzazione dell’economia mondiale, interi settori dell’economia reale vengono “cooptati” dal grande banco da gioco della finanza globale che per non crollare su sé stessa necessita continuamente di essere rifinanziata. Una grande “catena di Sant’Antonio” a livello globale, dove il gioco finisce quando l’ultimo della catena resta col cerino in mano, svelando che si è trattato di un grande bluff dove i valori finanziari espressi non esprimevano vera ricchezza reale.
Quando liberalizzare serve solo a creare monopoli privati
Sono sotto gli occhi di tutti, eppure si fa fatica a prenderne coscienza, gli effetti delle liberalizzazioni-privatizzazioni.
L’incapacità dell’uomo moderno a valutare i fenomeni per quello che sono è dovuta ad uno snaturamento della persona umana che da essere cognitivo e creativo è stata addormentata e limitata ad essere un soggetto meramente percettivo senza una propria capacità critica. Il complesso culturale dice che la neve è nera, e per la stragrande maggioranza delle persone la neve è nera.
La normativa di liberalizzazione in materia di commercio stilata durante gli anni ’90 – con particolare riguardo all’eliminazione dei vincoli di distanza per l’apertura di un’attività commerciale – ha di fatto rappresentato la porta d’ingresso a poche grandi catene commerciali che si sono impossessate del 70% del mercato. Ciò ha comportato la moria delle piccole attività commerciali, i cui fondi su strada si sono trasformati o in locali sfitti o in piccole abitazioni.
Secondo il Rapporto 2006 Unioncamere il fatturato del commercio per le piccole attività è stato nel 2003 di -2,8%, nel 2004 di -2,9% e nel 2005 di -2,4%, mentre per la grande distribuzione è stato nel 2003 di +3,5%, nel 2004 di
+2,1% e nel 2005 di +1,6%. Il Rapporto 2007 sulla Natalità e mortalità delle imprese italiane rincara la dose affermando:
Il tasso di crescita del trimestre (+0,25%), il più contenuto degli ultimi otto anni con riferimento al periodo giugno-settembre, è frutto di una natalità sostanzialmente in linea con gli anni passati (+1,36%) e di una mortalità che, nel trimestre scorso, ha fatto registrare il record negativo dal 2000 (+1,12%)… la selezione ‘darwiniana’ innescata dai processi di globalizzazione dei mercati sta operando in profondità sulle imprese più piccole, più isolate e prevalentemente localizzate al Sud. Diventa fondamentale, quindi, l’intervento delle istituzioni … per accompagnare questo percorso e non disperdere l’importante patrimonio di abilità delle piccole imprese italiane.
Sempre da UNIONCAMERE si ricava per il 2007 – nonostante i comunicati stampa cerchino di annebbiare la negatività della situazione ricostruita, con titoli positivi – che nel giro di un anno sono chiuse 390.209 imprese (oltre il 5% del
totale) con un differenziale natalità/mortalità comunque in crescita dello 0,75% (in brusca frenata rispetto all’1,21% del 2006) e che sarebbe però un dato negativo senza le nuove 54.463 società di capitali. Le piccole aziende, quelle
rappresentate dalle società di persone e dalle ditte individuali, infatti hanno registrato saldi negativi: -13.726 le ditte individuali del 2007 rispetto al 2006 e -341 le società di persone. Ciò vuol dire che l’imprenditore non se la sente più di
rischiare di essere responsabile nei confronti dei terzi anche con il proprio patrimonio personale, vista la facilità di incorrere in un fallimento aziendale e preferisce puntare sulla più sicura forma giuridica della società di capitali che
limita la responsabilità patrimoniale al solo patrimonio sociale. Ciò però fa già selezione censuaria ab origine: le società di capitali hanno infatti l’obbligo di dotarsi di un capitale sociale minimo stabilito per legge, cosa di cui invece non vi è bisogno per le ditte individuali e per le società di persone. Ed il dato risulta essere ancor più negativo se si considera che il saldo delle piccole imprese intestate ad extracomunitari è aumentato di 16.654 unità, grazie soprattutto a immigrati provenienti da Cina, Marocco ed Albania. Dunque, senza conteggiare l’imprenditorialità extracomunitaria, il saldo delle ditte individuali intestate a cittadini dell’UE in Italia risulta negativo per -29.970 unità (con prevalenza nei settori dell’agricoltura, del commercio, delle manifatture e dei trasporti). La cosa non può non preoccupare in quanto si tratta di imprese a minor valore aggiunto dove il più basso tasso di rendita imprenditoriale è accettato a causa del più umile tenore di vita a cui sono abituati questi imprenditori stranieri.
Ovviamente se è positivo il fatto che immigrati facciano imprenditorialità nel Paese che li ospita, la lettura puntuale dei dati fa comprendere come il sistema Italia si sia indebolito ulteriormente anche nel 2007.Più genericamente, la metà delle aziende chiude entro il sesto anno di attività.
L’istanza demagogica utilizzata per rendere meritoria agli occhi della popolazione la nuova normativa di liberalizzazione, era quella per cui tutti dovevano avere il diritto di trovare sotto casa il negoziante di scarpe piuttosto che di giocattoli. La normativa parlava di “una più capillare distribuzione dei prodotti sul territorio”. I prodotti invece hanno finito col concentrarsi in centri commerciali che hanno sostanzialmente preso il monopolio del mercato.
Ovviamente di necessità di “una più capillare distribuzione dei prodotti sul territorio” ora non se ne parla più! E’ poi assolutamente falsa l’idea per cui le liberalizzazioni portino ad un abbassamento dei prezzi. Mentre infatti le tariffe sono cresciute meno dei prezzi al consumo, i prezzi dei beni e dei servizi liberalizzati sono cresciuti costantemente più delle tariffe e dei prezzi al consumo.
2002 |
2003 |
2004 |
2005 |
2006 |
|
Aumento tariffe (al netto energetici) |
+0,1 | +0,9 | +0,9 | +1,5 | +1,6 |
Aumento beni e servizi liberalizzati (al netto energetici) |
+3,8 | +3,6 | +2,6 |
+2,0 |
+1,9 |
Prezzi al consumo | +2,5 | +2,7 | +2,2 | +1,9 | +2,1 |
Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, L’economia italiana nel 2006, pag. 35.
La considerazione solitamente fatta è quella per cui, aprendo il mercato, aumentando l’offerta, i prezzi devono inevitabilmente scendere. In teoria dovrebbe funzionare proprio così, ma nella realtà dei fatti, non essendo possibile una concorrenza pura – tanto di meno se lasciata alle libere dinamiche di mercato – gli operatori più forti finiscono col “mangiare” gli operatori più deboli. Così se in una primissima fase la liberalizzazione produce aumento dell’offerta e diminuzione dei prezzi di erogazione del prodotto o servizio, già nel breve periodo si assiste a fenomeni di acquisizione da parte degli operatori più forti di quelli più piccoli, venendosi così a creare oligopoli (o addirittura monopoli), diminuendo così la concorrenza; a quel punto i prezzi tornano vorticosamente a salire. Ecco che i mercati che
storicamente si sono dimostrati più efficienti sono quelli regolarizzati tenendo presente, come di fatto è nello spirito della nostra Costituzione, 1) il lavoro, 2) la qualità del servizio e prodotto erogato, 3) l’accessibilità al consumo. Non è infatti verosimile pensare che non tutelando primariamente i punti 1) e 2), al consumo possa derivare alcun vantaggio reale.
La normativa di liberalizzazione in materia di locazioni abitative, anch’essa stilata durante gli anni ’90 – con particolare riferimento alla l. 431/98 – ha fatto sì che i canoni d’affitto schizzassero alle stelle. Qui l’istanza demagogica utilizzata fu quella per cui non era giusto che il piccolo risparmiatore che per una vita aveva messo del denaro da parte per comperarsi una seconda casa, non potesse utilizzarla per la figlia appena coniugatasi, per causa di un’esosa normativa a tutela degli affittuari a cui erano concessi troppi anni di godimento dell’immobile prima dell’ esecutività dello sfratto, e per di più pagando canoni troppo bassi. A causa di ciò, si diceva, la gente preferiva tenere sfitto l’immobile. Si fece allora passare l’idea che liberalizzando la normativa, gli immobili da affittare presenti sul mercato sarebbero aumentati, ciò comportando la riduzione dei canoni. E’ ovviamente successo l’esatto contrario.
Questi due esempi di normazione liberalizzatrice sono sintomatici di come le politiche di liberalizzazione inneschino meccanismi che portano al rafforzamento delle posizioni delle categorie più forti.
Si tratta di un fenomeno presente anche in natura. Si pensi ad un bosco con vegetazione fittissima. Difficoltoso sarà il sorgere della vita animale di una certa dimensione, e dunque appetibile. Si pensi però anche alla savana, dove la scarsa
formazione vegetale è di ostacolo al proliferare delle forme animali più deboli e dove a fare da padroni sono gli animali più forti. Infine si pensi a quell’ambiente dove le formazioni vegetali sono a distanze tali da non soffocarsi l’una con
l’altra, tali da consentire il passaggio della luce, e dove dunque ogni formazione animale ha possibilità di svilupparsi in armonia con le più piccole che trovano difesa e rifugio grazie alla vegetazione.
Altrettanto, un’iper-burocratizzazione dei rapporti economici impedisce lo sviluppo dell’economia, ma l’eliminazione di fatto di ogni regola, la deregulation, fa sì che solo gli operatori più forti possano restare sul mercato. Ecco che ciò di cui vi è bisogno per far funzionare le cose in funzione del bene comune, è una migliore regolamentazione dei rapporti, di modo che ogni genere di operatore possa avere diritto a restare sul mercato in modo dignitoso.
Le privatizzazioni in Italia dal 1992
Per quale motivo agli inizi degli anni ’90 il tema principale della politica italiana divenne “privatizzare la pubblica impresa”? Inizialmente la motivazione addotta era il forte debito pubblico e dunque la necessità di ridurlo. Gli interessi negativi che su di questo maturavano, rappresentavano (ed ancor oggi rappresentano) un gravoso peso per l’economia del nostro Paese. Tuttavia si consideri che dalle privatizzazioni il capitale racimolato fu, tra il ’92 ed il 2000, di 198.000 miliardi di lire (di questi, 87 mila miliardi sono relativi a privatizzazioni propriamente dette, di cui oltre 55 mila miliardi ad aziende industriali). Il debito pubblico italiano nel 2000 era di 2.500.000 di miliardi di lire. Il debito pubblico dunque è stato ridotto appena del 7,92%. Tuttavia quel “ridotto” non corrisponde a verità se si considera che tra le aziende pubbliche vendute vi erano vere e proprie perle del capitalismo italiano (Comit, Credit, IMI, ma anche Eni, Enel,Telecom). Per cui se nell’immediato si sono avute delle entrate, fra l’altro irrisorie, per il futuro le scelte politiche hanno privato lo Stato di importanti entrate di cassa, nonché di assetti industriali che rappresentavano la spina dorsale
dell’economia pubblica nazionale e del sistema di welfare che in parte si reggeva su essa.
Non risultando credibile la prima motivazione addotta alla “necessità” del processo di liberalizzazione-privatizzazione che si intendeva avviare, la motivazione ufficiale a giustificazione delle privatizzazioni divenne successivamente quella di favorire un azionariato diffuso. Tuttavia anch’essa cadde di fronte alla realtà dei fatti. “Le privatizzazioni industriali realizzate con acquirenti italiani si sono caratterizzate per il collocamento di due terzi delle azioni presso singoli investitori (o loro “cordate”) e per il residuo sul mercato; relativamente agli acquirenti esteri, invece, la quota dei singoli è stata del 71% e quella del mercato del 29%.”
Si può dunque rilevare immediatamente come il controllo dei cespiti industriali sia sostanzialmente passato all’operatore pubblico a quello privato. La diffusione tra i piccoli risparmiatori ha riguardato soltanto un terzo del capitale sociale immesso sul mercato. Per cui non può reggere la tesi per cui lo scopo primario delle privatizzazioni fosse quello di attuare un passaggio dalla mano pubblica al pubblico risparmio.
Anche questa seconda motivazione si dimostrò palesemente contrastare con la realtà dei fatti.
L’ultima giustificazione ufficiale alle privatizzazioni divenne allora quella di consentire il rafforzamento della grande industria italiana che doveva essere messa in condizione di affrontare e sostenere la competizione internazionale, al fine di consolidare gli assetti produttivi e occupazionali nazionali. A questo riguardo i casi Eni e Telecom sono sintomatici del fatto che pure queste motivazioni siano state pretestuose e mendaci. Eni per esempio dal ’92 al ’96 ha ridotto il personale del 33,5%, rendendo più inefficiente la gestione produttiva. A fronte di una riduzione dell’1,9% del costo del lavoro, i costi operativi sono comunque aumentati passando dal 72,6% al 73% dei ricavi.
Anche tutte le altre aziende privatizzate hanno proceduto a tagli occupazionali e gli assetti produttivi, che già sotto la gestione pubblica erano molto efficienti, non ne hanno tratto giovamento di sorta. “All’incirca, metà delle imprese ha
registrato un miglioramento e metà un peggioramento o una variazione pressoché nulla.”
Le privatizzazioni italiane che vanno dal 1991 al 2000 sono caratterizzate dal fatto che pur passando sotto ben dieci Governi, sono però state tecnicamente guidate da un’unica figura: l’attuale governatore della Banca d’Italia, Mario
Draghi, direttore generale del Tesoro fino al 2001.
Già “nel periodo 1991-1999, l’economia italiana ha registrato uno sviluppo più contenuto di quello medio dei Paesi Ocse”. Tale differenziale di crescita, come è noto, persiste ancora oggi. Si può poi affermare che la capacità di crescita economica del nostro Paese si è ridotta del 67% dal 1991. Il seguente grafico chiarirà la questione.
La linea continua discendente, media i valori della produzione industriale dal 1991 ad oggi. Da essa si rileva come se nel 1991 tale valore fosse mediamente dell’1,5%, oggi è intorno allo 0,5%. Dunque, in oltre un quindicennio di
politiche liberiste, la capacità di crescita della produzione industriale italiana è diminuita di due terzi. A smentita delle tesi liberiste, questa capacità di crescita è stata in ripresa dall’inizio del 2002 alla fine del 2006, quando le politiche di spesa, soprattutto per infrastrutture, sono state più espansive, mentre è precipitata nel 2007, quando la politica del rigorismo finanziario ha ripreso piede.
“Le operazioni del Tesoro italiano hanno contraddistinto dei massimi a livello mondiale: la prima tranche dell’ENEL nel 1999 ha segnato il record per un’IPO sui mercati occidentali, mentre la vendita della Telecom Italia è stata la
maggiore OPV [offerta pubblica di vendita] mondiale che ha condotto ad una privatizzazione”.
Si può dunque tranquillamente affermare che l’approccio seguito per l’attuazione di questo processo di liberalizzazioni privatizzazioni, sia stato radicale. I governi italiani – ma forse è più corretto dire Mario Draghi – hanno dimostrato una capacità a saper raggiungere l’obiettivo senza tanti fronzoli. Una vera e propria terapia d’urto. Se con la stessa decisione con cui si è lavorato per portare dalla mano pubblica (o da moltissimi ma piccoli portatori d’interesse) a pochissime mani private una fetta importantissima del p.i.l., si lavorasse per ridare sviluppo all’economia nazionale e ridare esecuzione all’art. 3, 2° co. della Costituzione, la vita dei cittadini italiani non avrebbe niente a che fare con l’attuale no future generation.
Trovate il resto del dossier, con spiegati i singoli casi aziendali qui
ARGENTINIZZIZZAZIONE….VOCE DEL VERBO ARGENTINIZZARE….CIOE’ RENDERE LA VITA PIU’ FACILE AI RICCHI AI MAFIOSI AGLI INDUSTRIALI… DISTRUGGENDO IL PROPRIO PAESE E REGALANDO SUOI BENI A POCO PREZZO….
Grazie all’analisi di seguito proposta, l’idea per cui le liberalizzazioni e le privatizzazioni portino benefici
all’economia, viene totalmente confutata.E’ assolutamente falsa l’idea che le liberalizzazioni portino ad un abbassamento dei prezzi; è assolutamente falsa l’idea che le liberalizzazioni creino posti di lavoro;è assolutamente falsa l’idea che aumenti la produzione industraiale; ma sopratutto è assolutamente falsa l’idea che abbassi il debito pubblico
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http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/432876/
03/12/2011 – CRISI
Il grande flop delle liberalizzazioni:
“Prezzi Rc auto e banche ai massimi”
Per la Cgia di Mestre le liberalizzazioni hanno portato pochi vantaggi nelle tasche dei consumatori italiani. Nella stragrande maggioranza dei casi, rileva l’organizzazione artigianale mestrina, si è registrata una vera e propria impennata dei prezzi o delle tariffe. Tra l’anno di liberalizzazione ed il 2011, solo i medicinali e le tariffe dei servizi telefonici hanno subito una diminuzione del costo. Per tutte le altre voci del paniere preso in esame, invece, è successo il contrario.
«I prezzi o le tariffe sono cresciute con buona pace di chi sosteneva che un mercato più concorrenziale avrebbe favorito il consumatore finale – denuncia il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi, che con il suo Ufficio studi ha preso in esame l’andamento delle tariffe o dei prezzi di 11 beni e servizi che sono stati liberalizzati negli ultimi 20 anni -. Purtroppo, in molti settori si è passati da una situazione di monopolio pubblico a vere e proprie oligarchie controllate dai privati». Il flop più clamoroso è avvenuto per le assicurazioni sui mezzi di trasporto (Rc auto) che dal 1994 ad oggi sono aumentate del +184,1%, contro un incremento dell’inflazione del +43,3% (in pratica le assicurazioni sono cresciute 4,2 volte in più rispetto al costo della vita). Male anche i servizi bancari/finanziari (costo dei conti correnti, dei bancomat, commissioni varie).
Sempre tra il 1994 ed il 2011 i costi sono aumentati mediamente del +109,2%, mentre l’incremento dell’inflazione è stato pari al +43,3% (in questo caso i costi finanziari sono aumentati 2,5 volte in più dell’inflazione). Anche i trasporti ferroviari hanno registrato un incremento dei prezzi molto consistente: tra il 2000 ed il 2011, sono aumentati del +53,2%, contro un aumento del costo della vita pari al +27,1%. Se per i servizi postali l’aumento del costo delle tariffe è stato del +30,6%, pressochè pari all’incremento dell’inflazione avvenuto tra il 1999 ed il 2011 (+30,3%), per l’energia elettrica la variazione delle tariffe ha subito un aumento più contenuto (+1,8%) rispetto alla crescita dell’inflazione (che tra il 2007 ed i 2011 è stata del +8,4%). Solo per i medicinali e i servizi telefonici le liberalizzazioni hanno portato dei vantaggi economici ai consumatori. Nel primo caso, tra il 1995 ed oggi i prezzi sono diminuiti del 10,9%, a fronte di un aumento del costo della vita del +43,3%. Nel secondo caso, tra il 1998 ed il 2011 le tariffe sono diminuite del 15,7%, mentre l’inflazione è aumentata del 32,5%. «Alla luce del risultato emerso in questa analisi – conclude Giuseppe Bortolussi – invitiamo il nuovo Governo Monti a monitorare con molta attenzione quei settori che saranno prossimamente interessati da processi di deregolamentazione».
Il capitalismo del futuro anteriore. Il caso Parma
Una città sommersa da 1,2 miliardi di debito, quasi tutto causato da una gestione privatistica dei beni comuni e dei servizi pubblici attraverso lo strumento del “project financing”. Parma è un caso paradigmatico della deriva sempre più oligarchica e postdemocratica del neoliberismo.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-capitalismo-del-futuro-anteriore-il-caso-parma/
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“Fermare il declino” è il titolo del manifesto di quello che si candida ad essere un nuovo partito liberale-liberista-libertarian, promosso da alcuni liberisti noti al grande pubblico come Oscar Giannino e Michele Boldrin. Al manifesto hanno aderito anche diversi esponenti del partito di Fini e della fondazione di Luca Cordero di Montezemolo.
Analizzeremo qui, punto per punto, le proposte avanzate nel documento.
1) Ridurre l’ammontare del debito pubblico: è possibile scendere rapidamente sotto la soglia simbolica del 100% del PIL anche attraverso alienazioni del patrimonio pubblico, composto sia da immobili non vincolati sia da imprese o quote di esse.
E’ stato già fatto negli ultimi 20 anni. Dopo la cessione a Fiat dell’Alfa Romeo (anni 80), nel decennio seguente l’Italia ha realizzato un’enorme dismissione di partecipazioni statali, tra cui:
Alimentari: Sme, Gs, Autogrill, Cirio Bertolli De Rica, Pavesi
Siderurgia, alluminio, vetro: Italsider, Acciarieri di Terni, Dalmine, Acciaierie e Ferriere di Piombino, Csc, Alumix, Cementir, Siv
Chimica: Montefibre, Enichem Augusta, Inca International, Alcantara
Meccanica ed elettromeccanica: Nuovo Pignone, Italimpianti, Elsag Bailey Process Automation, Savio Macchine Tessili, Esaote Biomedica, VitroselEnia, Dea, Alenia Marconi Communication
Costruzioni: Società Italiana per Condotte d’Acqua
TLC: Telecom Italia
Editoria e pubblicità: Seat Pagine Gialle, Editrice Il Giorno, Nuova Same
Banche e assicurazioni: BNL, INA, IMI, ecc.
Trasporti: Società Autostrade
Negli anni 2000, inoltre, il governo ha messo sul mercato ingenti quantità di immobili di proprietà dello stato.
Questo non ha fatto “scendere rapidamente” il debito pubblico, visto anche che molte di queste società sono state vendute a prezzi bassi a causa della crisi degli inizi degli anni ’90.
Il risultato netto di queste privatizzazioni è che oggi le imprese italiane che hanno una qualche rilevanza internazionale sono solo le due principali aziende ancora controllate dallo stato: Eni ed Enel. L’esatto opposto di quello che i promotori dell’appello sostengono riguardo la presunta efficienza del privato e la irriformabile inefficienza del pubblico.
http://pubblicogiornale.it/ilva-storia-di-una-privatizzazione-come-unazienda-pubblica-e-stata-svenduta-per-un-piatto-di-lenticchie/2012-08-10
Oggi, quando si pensa all’Ilva, vengono in mente i recenti e gravi fatti di cronaca. Ma il calvario del fiore all’occhiello dell’industria italiana ha inizio simbolicamente nel 1995, anno in cui l’intera struttura industriale della siderurgia pubblica è stata privatizzata. A beneficio esclusivo, oggi possiamo dirlo con certezza, del solo acquirente privato.
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Nel 1992, quando cedette le fonderie dell’Efim all’Alcoa, lo stato italiano garantì aiuti ed extraprofitti sia alla multinazionale Usa che all’Enel. Finita la festa, i banchettanti scappano. Una vicenda che, cifre alla mano, smentisce la retorica del “privato è meglio”. Come ne usciamo, adesso?
19 nov – L’ex collaboratore di Enrico Mattei, ad Ascoli per un convegno a 50 anni dalla morte dal creatore dell’Eni, usa parole durissime:
“Hanno svenduto il nostro Paese. Draghi diede mille miliardi di patrimonio pubblico a Goldman Sach’s, in cambio di una sola lira”.
“si sono chiuse attività che portavano profitti allo Stato come la Nuovo Pignone, la Lebole, la chimica di base. Si distrusse l’Eni. Il patrimonio immobiliare dell’Eni, che valeva mille miliardi di lire, è stato venduto a Goldman Sach’s per una lira..
Quindi vi fu un attacco allo Stato imprenditore organizzato dalle grandi banche d’affari, che convinsero Ciampi e Amato a liberalizzare il settore pubblico. Mario Draghi, allora direttore generale del Ministero del Tesoro, spinse verso la privatizzazione. Venne distrutto lo Stato imprenditore, l’Eni da 130 mila dipendenti si ridusse a 30 mila, scaricando ai cittadini il costo di questa operazione”.
http://www.imolaoggi.it/?p=33056
http://www.appelloalpopolo.it/?p=3844
I veri responsabili della distruzione del sistema economico italiano
redazione on June 12, 2011 — 18 Comments
di A.D.G. La Voce del corsaro Titolo originale Lo scempio delle privatizzazioni in Italia
Aggiungerei un sottotitolo: La verità che i militanti e i simpatizzanti di sinistra e del centrosinistra si ostinano a negare. E ciò è il più grave dei problemi. Perché essi restano prigionieri della logica bipolare; non comprendono che è importante dar vita al partito alternativo al partito unico delle due coalizioni; e non prendono atto che i principi comunemente accolti dalle due coalizioni – e per varie ragioni attuati con maggior ferocia e determinazione dal centrosinistra – sono i principi che vanno combattuti, riscoprendo la nostra storia: la storia della migliore sinistra italiana; la storia della migliore politica “centrista” italiana; e finanche la storia della migliore destra italiana. Buona lettura (SDA)
Prima di affrontare e di incamminarci direttamente verso il tema centrale dell’articolo, c’è bisogno di fare un “piccolo” excursus storico che affonderebbe le sue radici addirittura negli anni ’30 del ‘900, ma per semplificare il flusso di questa storia, con tante ombre e poche luci, partiamo dal dopoguerra. Dopo la seconda guerra mondiale e la nascita della Repubblica, i maggiori partiti italiani dell’epoca, la DC e la sinistra facente capo al PCI, si trovarono a decidere insieme quale struttura economica dare al nascente Stato italiano. Vennero rifiutati entrambi i sistemi dominanti dell’epoca, cioè il liberismo statunitense e il collettivismo sovietico; la nuova forma economica che prese vita fu quella dello stato imprenditore. Con questo modello il potere economico statale si trovava a competere con le leggi del mercato, in concorrenza con i privati, con lo scopo di incoraggiare, anche con l’ausilio privato, l’economia del paese. Questo è il sistema della cosiddetta “terza via”, che aiuterà l’Italia a crescere dal dopoguerra in avanti.[1]
Alla base dello stato imprenditore vi era l’IRI, nato nel 1933 come ente di “salvataggio”, che dopo il 1948 divenne il vero e proprio regolatore dei rapporti statali nel mondo industriale ed economico. Dagli anni cinquanta in poi fu il vero strumento di ammodernamento del paese; il suo campo d’azione era vastissimo
e comprendeva: acciaierie, autostrade, telecomunicazioni, settore finanziario, settore alimentare, trasporti, ecc. Sostanzialmente l’IRI fu una delle strutture produttive nazionali complesse, capace di misurarsi e competere con i settori di alta tecnologia e alta produttività sorti nel resto d’Europa. Un altro ente importante per comprendere al meglio la presenza dello stato nell’economia era l’ENI, impegnato nel settore degli idrocarburi. Esso gestiva le partecipazioni statali nel settore dell’industria petrolifera e nei settori della petrolchimica, e fu all’avanguardia nella ricerca, lo sfruttamento e il trasporto degli idrocarburi. Da menzionare per la loro relativa importanza nel campo dell’intervento statale, l’EFIM (ente finanziamento industria meccanica) e l’EGAM (ente gestione aziende minerarie). Al fine di coordinare al meglio lo Stato imprenditore, nel 1956 fu istituito il “ministero delle partecipazioni statali”, che si basava sull’idea dell’azienda pubblica come motore di sviluppo economico e strumento di politiche sociali ed occupazionali.[2]
Fin qui la storia sembrerà sicuramente didascalica e scolastica, però tutto ciò è necessario conoscerlo, per affrontare la parte interessante e “sconvolgente” di questa narrazione avendo acquisito una buona dose di concetti base.
Entriamo finalmente nel vivo, e arriviamo alle avvisaglie di quello sarà poi il grande saccheggio della nostra Nazione.
Anni ’80, qui incontriamo i primi due personaggi chiave: Romano Prodi e Carlo De Benedetti. Il primo venne nominato presidente dell’IRI nel 1982, il secondo, invece, era ed è il proprietario del gruppo Repubblica/Espresso. Prodi, nei 7 anni che sarà alla guida dell’IRI, darà prova di grande ambiguità e scaltrezza, infatti, in qualità di presidente concederà alla società di consulenze finanziarie “Nomisma”, della quale è dirigente, incarichi miliardari (alla faccia del conflitto di interesse). Il primo grande colpo di Prodi alla presidenza dell’IRI fu la vendita dell’Alfa Romeo alla FIAT, dalla quale la sua Nomisma prese grosse somme in tangenti, per soli 1000 miliardi a rate, mentre la FORD offriva 2000 miliardi in contanti (il fiuto per gli “affari” è sicuramente innato!).[3] E’ nel 1986 che Carlo De Benedetti sale in cattedra. Infatti, un anno prima, il governo presieduto da Bettino Craxi decise di privatizzare il comparto agro‐alimentare dell’IRI, la SME, che presentava bilanci in deficit. Il consiglio di amministrazione dell’IRI fu incaricato dell’operazione, anche se la decisione finale spettava al governo.[4] Il buon Romano Prodi si mise subito all’opera. Con accordi privati con la Buitoni (presieduta da De Benedetti), svende il 64,36% della SME a soli 393 miliardi, quando il valore complessivo di mercato era di circa 3.100 miliardi.[5]
Naturalmente, secondo chissà quale visione economica naif, Prodi non prende neanche in esame le offerte maggiori degli altri acquirenti interessati alla SME. Alla fine, comunque, a rompere le uova nel paniere al duo De Benedetti‐Prodi è Bettino Craxi, il quale non diede autorizzazione di vendita e ritenne di mantenere la SME nell’ambito pubblico.[6] Queste sono solo le prime avvisaglie di un “colpo grosso”, che porterà allo smantellamento completo dell’assetto economico italiano.
Gli anni ’90 si aprirono subito con grandi sconvolgimenti e grandi temi da affrontare: iniziò la stagione di “mani pulite”, furono assassinati i giudici antimafia Falcone e Borsellino, il debito pubblico arrivò ai massimi storici e vi fu un attacco speculativo alla lira e alle altre valute europee, da parte del finanziere George Soros, che portò alla distruzione del “sistema monetario europeo”.[7]
Andiamo con ordine, è il 2 giugno 1992, sul panfilo “BRITANNIA” di sua Maestà la Regina Elisabetta, ci fu un incontro più o meno riservato tra top manager italiani e britannici. Erano presenti i presidenti di ENI, INA, AGIP, SNAM, ALENIA e Banco Ambrosiano, oltre all’ex ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e al direttore generale del Tesoro “Mario DRAGHI”. La discussione fu incentrata sul tema delle “privatizzazioni” del comparto pubblico italiano, e la discussione si basò soprattutto su una critica al sistema italiano, reo di essere “lontano da un vero processo di privatizzazioni per ragioni culturali, di sistema politico e di specificità delle aziende da cedere”, come ebbe a dire sullo “yacht reale” il presidente dell’INA Lorenzo Pallesi.[8] Ad inasprire il dibattito ci pensò il consigliere di Confindustria Mario Baldassarri, che incalzò:” Per privatizzare
servono 4 condizioni: una forte volontà politica; un contesto sociale favorevole; un quadro legislativo chiaro; un ufficio centrale del governo che coordini tutto il processo di privatizzazioni. Da noi oggi non se ne verifica
nemmeno una”.[9] Quindi, se in quell’Italia la volontà politica non era propensa alle privatizzazioni, i vari manager pubblici e persone del calibro di Draghi, uomo della finanza internazionale, erano già catapultati verso il nuovo indirizzo economico, e la loro volontà veniva incontro agli interessi degli “amici” britannici, che avevano fretta nel spartirsi una bella torta dal valore di circa 100 mila miliardi di lire.
Torniamo indietro di 5 mesi, andiamo al 17 febbraio 1992, data dell’arresto di Mario Chiesa, che darà avvio alla stagione di “mani pulite”. Da lì a pochi mesi un’intera classe politica sarà spazzata via dalle inchieste di Di Pietro & co. I partiti letteralmente distrutti da questa stagione giudiziaria furono la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista, i quali avevano una caratteristica comune: erano fortemente intrisi di “statalismo”, cioè erano fortemente inseriti nella concezione delle partecipazioni statali, e non avevano scrupoli ad offrire prebende ed elargizioni di Stato per comprare il consenso dei cittadini. Sicuramente, questo era un sistema lontano anni luce da quello degli affaristi della “city” di Londra e dei nuovi liberal/liberisti italiani. Da qui inizia la fase dei cosiddetti “governi tecnici” e nel 1993 il Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi e il suo governo istituiscono il “Comitato Permanente di Consulenza Globale e Garanzia per le Privatizzazioni”, con presidente Mario Draghi (vedi “Britannia”), e il ministro degli Esteri Beniamino Andreatta (vedi “Britannia”) istituirà accordi con il commissario europeo alla concorrenza Karel Van Miert, affinché le aziende di Stato possano diventare appetibili per il capitale privato.[10]
Avete notato cosa è successo? Ricordate le 4 condizioni per le privatizzazioni del “Britannia”?
Numero 1 (una forte volontà politica): dopo la scomparsa, causa Tangentopoli, dei partiti storici DC/PSI, si avvicendarono al governo vari “tecnici”, tutti fortemente propensi al nuovo corso economico; i nomi e cognomi di questi tecnici sono: Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato, Lamberto Dini, i già citati Andreatta e Draghi ed in seguito anche altri protagonisti.[11]
Numero 2 (un contesto sociale favorevole): beh, in quegli anni di grande caos, dove l’indignazione contro una classe politica “corrotta”(e statalista) che veniva spazzata via dalle inchieste(?) era alta, e dove il debito pubblico schizzava alle stelle, anche se non era un reale problema, il contesto era sicuramente favorevole per lasciare spazio alle privatizzazioni.
Numero 3 (un quadro legislativo chiaro): il quadro normativo cominciò ad essere chiaro dal 1993, con il già citato accordo Andreatta/Van Miert, che regolava la ricapitalizzazione del settore siderurgico a patto che lo si privatizzasse e l’azzeramento del debito delle imprese statali. [12] Inoltre, con il cosiddetto “decreto Amato” si trasformarono in società per azioni l’IRI, l’ENI, l’ENEL e l’INA, e con successivi decreti verrà regolamentata la pratica delle privatizzazioni.[13]
Numero 4 (un ufficio centrale del governo che coordini tutto il processo di privatizzazioni): ed ecco anche l’ufficio, cioè il “Comitato Permanente di Consulenza Globale e Garanzia per le Privatizzazioni”, presieduto dal tecnocrate Draghi.
Ecco, ora i tasselli del puzzle sembrano incastrarsi meglio, nel giro di pochi anni gli interessi della grande finanza sono riusciti a mettere tutte le cose in ordine, grazie a: tangentopoli (giustizia a orologeria?) e ad una classe politica completamente asservita (vedi sopra). Vediamo ora il secondo step di questo processo e cioè le privatizzazioni vere e proprie.
Nel corso del 1993 ritorna in auge un personaggio che abbiamo già incontrato nella nostra storia: Romano Prodi. Ritornato alla presidenza dell’IRI, dopo esser stato consulente per la Goldman Sachs, Prodi procedette alla svendita del gruppo Cirio-Bertolli-De Rica (comparto SME), alla società Fisvi, la quale non aveva i requisiti necessari per l’acquisto. Ed ecco perché questo giochetto: la Fisvi acquista a due soldi il gruppo, e a sua volta cederà il controllo della Bertolli all’UNILEVER (multinazionale alimentare anglo-olandese). Chi era
“l’advisory director” (direttore per le consulenze) dell’UNILEVER?? La risposta è semplice: l’impareggiabile Romano Prodi.[14] Risale al 1993 anche la prima privatizzazione di una delle grandi banche pubbliche, il “Credito Italiano”. La “Merril Lynch” (banca d’affari americana), incaricata come consulente dall’IRI, valuterà il prezzo di vendita del Credito Italiano in 8/9.000 miliardi, ma alla fine verrà svenduta per 2.700 miliardi, e cioè il prezzo stabilito dalla “Goldman Sachs”(altra banca d’affari americana).[15]
Sempre quell’anno verranno cedute anche le quote della COMIT, che assieme al Credito Italiano e alla BNL detenevano il 95% delle azioni della Banca d’Italia. Come consulenti per la cessione delle banche furono chiamati uomini come Mario Monti, Letta, Tononi e Draghi, tutti gravitanti nell’orbita “Goldman Sachs”.[16] Nel 1994, dopo le prime elezioni post Tangentopoli, al governo andrà il centrodestra guidato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, sul quale peserà il sospetto di eccessiva accondiscendenza ad Alleanza Nazionale, che aveva in Antonio Parlato, sottosegretario al Bilancio, e nel vicepremier Giuseppe Tatarella due posizioni fortemente contrarie alle privatizzazioni.[16] Comunque, il governo Berlusconi durò pochi mesi, e alla presidenza del consiglio fu sostituito dal “tecnico” Dini. Con Dini, nel 1995, cominciò la prima fase di privatizzazione dell’ENI, dove fu dismesso circa il 15% dell’intero pacchetto azionario.[18] Nel 1996, a vincere le elezioni è il centrosinistra guidato dal “santo spirito” Romano Prodi, che cede un altro 16% delle quote ENI ed inoltre privatizzò la Dalmine e la Italimpianti appartenenti al gruppo IRI. E’ nel 1997 che Prodi dà il meglio di sé, infatti, ritorna a “trattare” col suo vecchio amico l’Ingegner Carlo De Benedetti. Sugli “affari” fatti dai due, l’ex segretario del Partito Liberale ed ex ministro dell’Industria Renato Altissimo sentenziò: “Infostrada — cioè la rete telefonica delle Ferrovie dello Stato – fu ceduta all’Ingegnere per 750
miliardi di lire da pagare in comode rate. Subito dopo De Benedetti vendette tutto per 14mila – ripeto – 14mila miliardi di lire ai tedeschi di Mannesman”.[19] Un vero e proprio regalo si direbbe! Sempre quell’anno Prodi mise sul mercato “Telecom”, con le azioni che furono vendute ad un prezzo irrisorio, infatti, appena un anno dopo le stesse azioni varranno sul mercato 5 volte di più (+ 514%).[20]
Dopo la caduta del governo Prodi nell’Ottobre 1998, a prendere il suo posto è Massimo D’Alema, uno dei tanti post-comunisti convertitisi alla causa liberista, che nel Novembre dello stesso anno privatizzerà la BNL, con la consulenza della JP Morgan (altra banca d’affari americana).[21] Nel 1999, dopo il “decreto Bersani” che liberalizzava il settore dell’energia, venne privatizzata l’ENEL e sempre quell’anno venne ceduta la società Autostrade alla famiglia Benetton (quella delle magliette). L’ultima fase di privatizzazione riguarda quel poco che era rimasto all’ENI, infatti, l’onnipresente Goldman Sachs acquisterà l’appetibile patrimonio immobiliare dell’ente per il valore di 3000 miliardi di lire. La cara Goldman farà incetta anche di altri immobili, come quelli della Fondazione Cariplo, mentre la Morgan Stanley (ennesima banca d’affari americana) si catapulterà all’acquisto dei patrimoni di Unim, Ras e Toro. Secondo studi eseguiti dal “Sole 24 ore”, i gruppi esteri oramai posseggono più patrimoni ex-pubblici di quanti ne posseggano gruppi italiani.[22] La fase delle privatizzazioni si può ritenere chiusa nel 2002, con la dismissione e la liquidazione dell’IRI.
Così, in meno di 10 anni, un intero sistema economico viene distrutto e tutto quello che ha reso l’Italia uno dei più grandi paesi a livello internazionale viene ridotto a poco più che uno spezzatino. Grazie allo scempio di queste svendite l’Italia si è giocata il 36% del suo PIL, e cioè della sua ricchezza. I maggiori artefici di questo processo predatorio dello Stato italiano sono gli stessi uomini che ci hanno consegnato nelle mani dell’Europa e nella morsa della moneta unica. Sono gli stessi che oggi vengono pontificati come profeti della buona politica,“grandi statisti”; ma prima o poi arriverà anche per loro, il giorno in cui dovranno rispondere al tribunale della storia e a tutti gli italiani per il loro alto tradimento alla patria. Per gli affaristi, che hanno
svenduto l’Italia e gli italiani al peggiore offerente, quel giorno arriverà.
Sperando che giustizia ci sia.
note:
[1] http://www.youtube.com/watch?v=lD_qRPGf0ug&feature=player_embedded ‐ at=121
[2]http://dipeco.economia.unimib.it/persone/Marzi/didatticaPolEconB/Le privatizzazioni In Italia.pdf
[3] http://informatorepolitico.ej.am/de‐benedetti‐romano�…
[4] http://it.wikipedia.org/wiki/Vicenda_SME
[5] vedi nota 3
[6] vedi nota 4
[7] http://www.movisol.org/privatizzazioni.pdf
[8]http://archiviostorico.corriere.it/1992/giugno/03/Inglesi…
[9] vedi nota 8
[10] http://www.paolobarnard.info/docs/Il_Piu_Grande_Crimine.pdf
[11] http://www.paolobarnard.info/docs/Il_Piu_Grande_Crimine.pdf
[13]http://dipeco.economia.unimib.it/persone/Marzi/didatticaPolEconB/Le privatizzazioni In Italia.pdf
[14]http://archiviostorico.corriere.it/1996/novembre/26/Vendita_Cirio_processi_Prodi__co_0
_96112610938.shtml
[15] http://www.impresaoggi.com/it/stampa.asp?cacod=60
[16] http://www.conflittiestrategie.it/2010/11/05/svendita‐italia‐labc‐panfilo‐britannia‐dinicoletta‐
forcheri/
[16] vedi nota 15
[18] http://www.impresaoggi.com/it/stampa.asp?cacod=61
[19] http://www.ilgiornale.it/interni/de_benedetti_vi_spiego_chi_e_davvero/30‐08‐
2009/articolo‐id=378414‐page=0‐comments=1
[20] http://www.disinformazione.it/telecom_e_le_storie.htm
[21] http://www.tesoro.it/ufficio‐stampa/comunicati/?idc=297
[22] http://ladiscussione.ilcannocchiale.it/2011/04/24/draghi_…
Cominciamo con la parola “privatizzazione”.Per un tempo infinito, e tuttora in auge, si è pensato che privatizzare fosse una cosa meravigliosa, che avremmo avuto solo benefici, che ci saremmo dimenticati delle spese per mantenere carrozzoni inutili.
Ebbene lo stiamo vedendo con l’Ilva di Taranto. Con la privatizzazione, abbiamo dato modo al privato di arricchirsi, di ingrossare se stesso a danno nostro e soprattutto della nostra salute. Il privato senza scrupoli non ha pensato che poteva avvelenare la gente, costava troppo mettere impianti che avrebbero garantito la salute della gente. Ed ora ci troviamo morti, città avvelenate e soldi da pagare. (http://www.lastampa.it/2012/11/28/cultura/domande-e-risposte/qual-e-la-storia-dell-ilva-xAgG7UE5ukR6YVACx9IjQP/pagina.html)
Lo stiamo vedendo con Alitalia, prossima al fallimento. Si è voluto sostenere da parte della destra in particolare, la grande cordata privata purchè italiana, che si è accollata tutti i benefici ed ha addossato a noi i debiti di quella compagnia, ebbene, ora sta fallendo. Potevamo incassare miliardi al tempo di Prodi se la si cedeva alla Francia. Attualmente l’Alitalia sta perdendo 630mila euro al giorno. Nel 2013 tornerà il tormento intorno alla compagnia di bandiera che oggi non vuole comprare neppure l’Air France (azionista con 20%). Tra le ultime ipotesi quella di una fusione con le Ferrovie dello Stato, cioè in sostanza una nuova statalizzazione. Si è fatto tutto questo giro per salvare l’italianità dell’Alitalia, privatizzandola, per rimetterci solo milioni e milioni di euro a carico di tutti noi. Inoltre, l’aeroporto della Malpensa che doveva diventare il più grande d’Europa, è ora un fantasma.
Fu chiaro a tutti che i monopoli sarebbero diventati società per azioni, pur restando monopoli. E aggiungiamo le parole di Camusso (Cgil) .«In tempi di crisi economiche ci vuole più pubblico e meno privato». E’ vero, quante cose si stanno risolvendo con l’intervento pubblico? Persino le banche!!!E allora perché la privatizzazione è considerata la panacea dei mali per il nostro paese?
Poi è stata la volta della parola “flessibilità”. Erano gli anni 90. E la popolazione italiana cominciò ad essere bombardata da questa parola, che destava perplessità. Ma c’erano molti esperti che dicevano che sarebbe stata la volta buona per far sì che il nostro paese diventasse più moderno. A partire dal ministro Treu del governo Prodi, la febbre della flessibilità ha contagiato tutti, con il risultato di produrre oltre quaranta tipi contrattuali di paraschiavitù a tempo determinato. Il paese con la flessibilità avrebbe guadagnato efficienza e ricchezza. Abbiamo visto.
Ora la parola flessibilità è diventata “flexsecurity”. Viene pronunciata all’inglese, così si aumenta la confusione, la gente capisce ancora meno, e modernizziamo il paese sulla base dell’incomprensione. Cosa vorrebbe dire? Flessibilità e sicurezza insieme? Due cose opposte che si coniugano piuttosto male. Sicurezza di che? Di essere precari a vita, questo è certo e assodato!
Questo è il progetto della riforma del lavoro secondo Pietro Ichino. E Monti ha sposato il progetto. «Per la riforma del lavoro, ci muoveremo con moderazione verso modelli che esistono con successo in Nord Europa a partire dalla Danimarca, che è la più celebrata in termini di ‘flexsecurity‘ (mix tra flessibilità e sicurezza), anche se non diventeremo necessariamente danesi”. Quindi, tutti a Copenhagen a studiare questo modello di successo. (http://www.ilcambiamento.it/crisi/lavoro_governo_monti_importare_flexsecurity.html). Un tripudio!
Se gli italiani conservassero memoria storica di quello che succede ogni volta che si introducono parole “nuove” cosiddette “moderne” che fanno irruzione sulla scena politica e che vengono ossessivamente ripetute, ma mai spiegate o argomentate con serietà, saprebbero che la fregatura aleggia nell’aria.
Tratto da: LE PAROLE CHE NASCONDONO LE FREGATURE | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2013/01/17/le-parole-che-nascondono-le-fregature/#ixzz2IEM90iEx
– Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!
Pingback: L’Italia è sotto occupazione straniera. Caso Finmeccanica e svendita dell’IRI: l’accordo Andreatta-Ciampi su Bankitalia | Escogitur.it
http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-privatizzazioni-che-hanno-ucciso-la-societa/#.UX_gm2eWpHs.facebook
Nel libro di Marco Bersani “CatasTroika” (appena uscito per Edizioni Alegre) un bilancio di ciò che le politiche liberiste e le privatizzazioni hanno prodotto negli ultimi quarant’anni, dall’America Latina alla Gran Bretagna, dalla Russia del post socialismo reale all’Europa occidentale. Anticipiamo un brano tratto dal capitolo: “Italia: dal Britannia al Titanic?”.
di Marco Bersani
Che il processo di privatizzazione in Italia abbia comportato una gigantesca ritirata dello Stato da un ruolo diretto nella produzione industriale e, più in generale, del “pubblico” nell’erogazione dei servizi, lo dimostrano alcuni semplici dati: complessivamente le operazioni hanno comportato proventi lordi per 134 miliardi, nonché risorse reperite totali, comprensive dell’indebitamento finanziario trasferito (14 miliardi) per 148 miliardi.
Alle 114 operazioni censite dal Barometro delle privatizzazioni (Bp) per il periodo 1985-2007, individuate escludendo quelle di importo superiore agli 80 milioni, ma considerando anche la dismissione di alcuni immobili (Torri del demanio dell’Eur) e delle società elettriche locali, corrispondono, invece, proventi pari a 152 miliardi.
In entrambi i casi l’Italia si è posizionata al secondo posto, dopo il Giappone, nella classifica globale per proventi da privatizzazioni.
Cifre che appaiono di importante dimensione, ma che in realtà, se paragonate con i successivi valori borsistici delle società privatizzate, come confermato dall’analisi della Corte dei Conti (delibera del 19 dicembre 2012), si rivelano una sorta di “saldi di fine stagione”, la stagione dell’intervento dello Stato nell’economia.
Più in generale, le operazioni di privatizzazione nel loro complesso hanno comportato il totale disimpegno dello Stato dai settori bancario, assicurativo, tabacchi e telecomunicazioni, nonché un consistente ridimensionamento delle partecipazioni, anche se non del controllo, nei settori strategici dell’energia (Eni ed Enel) e della difesa (Finmeccanica).
La conseguenza è stata che, a fronte di un peso del 18% nel 1991, il contributo al Pil delle imprese partecipate dall’amministrazione centrale è divenuta oggi pari al 4,7%.
Una trasformazione strutturale dell’economia di enormi proporzioni, rispetto alla quale occorre capire chi ne abbia tratto benefici e chi invece ne sia stato danneggiato.
Un primo segnale non può che venire da uno sguardo sulle società di consulenza finanziaria – i famosi “contractors” – che hanno accompagnato i processi di privatizzazione, ottenendo compensi, attraverso ruoli plurimi tra le funzioni di advisor, valutatore, intermediario, collocatore e consulente, pari ad oltre 2,2 miliardi: si tratta, fra le altre, di Societè Generale, Rotschild, Credit Suisse First Boston, JP Morgan, Merril Lynch, Lehman Brothers, ovvero del gotha finanziario a livello internazionale.
E infatti, la prima conseguenza evidente del processo di privatizzazione è stata quella di mettere la parola “fine” a qualsiasi possibilità di una finanza pubblica.
Agli inizi degli anni 90, l’Italia era il Paese europeo nel quale il controllo pubblico delle banche era il più elevato: il 74,5%, a fronte del 61,2% in Germania, e del 36% in Francia.
Il processo di riforma attuato ha portato all’azzeramento della proprietà pubblica nelle banche italiane, andando così ben oltre Germania e Francia, le quali, pur riducendo il controllo pubblico, hanno tuttavia mantenuto nel sistema bancario una presenza più che significativa, rispettivamente del 52% e 31%.
La deregolamentazione ha anche prodotto – com’è ovvio nella giungla del mercato – un forte processo di concentrazione, che, attraverso 566 acquisizioni e fusioni per un valore pari al 50% degli asset totali, ha drasticamente modificato il panorama bancario italiano, portando le quote di mercato dei cinque maggiori gruppi bancari dal 34 al 54%.
Se a tutto ciò si aggiunge la privatizzazione della Cassa Depositi e Prestiti del 2003, con l’ingresso nel capitale sociale delle Fondazioni bancarie (30%), saldamente inserite nel controllo delle banche di riferimento, il quadro è abbastanza chiaro: le privatizzazioni hanno portato all’azzeramento di ogni funzione pubblica in campo economico e finanziario, con effetti pesanti direttamente riscontrabili nell’odierna crisi, che vede le scelte economiche del Paese sottostare, in totale sudditanza, alle dinamiche del sistema finanziario internazionale.
Uno dei risultati favorevoli, a più riprese sbandierato dai fautori delle privatizzazioni, riguarda i benèfici effetti delle stesse sul debito pubblico del Paese, avendo gli introiti delle dismissioni ridotto il rapporto debito/Pil nel periodo 1992-2004, con un risparmio in conto interessi di circa 38 miliardi.
Ma si tratta di un’illusione, sia quantitativa che qualitativa: perché, se nell’immediato si sono avute delle entrate, peraltro irrisorie se confrontate all’entità del debito pubblico, nel medio e lungo periodo le privatizzazioni hanno privato lo Stato di importanti entrate di cassa, nonché di assetti industriali che rappresentavano la spina dorsale dell’economia pubblica e del sistema di welfare che in parte si reggeva su di essa.
E se l’obiettivo dichiarato era quello di mettere in atto una liberalizzazione dell’attività economica favorendo la libera concorrenza, il risultato più evidente è stata la consegna a monopoli privati di attività e servizi gestiti precedentemente dal pubblico, comportando una trasformazione delle stesse, da funzione sociale a funzione unicamente finalizzata alla redditività economica. Questo perché l’obiettivo prioritario dei processi di privatizzazione era in realtà quello di dare un forte impulso ai mercati finanziari, come dimostra il fatto che, dal 1992 al 2007, la capitalizzazione del mercato borsistico domestico sia cresciuta di sette volte e il volume degli scambi sia aumentato di ottantacinque volte. Variazioni tali da essere in larga parte attribuibili alla quotazione di imprese privatizzate, la cui abbondante offerta ha favorito una massiccia riallocazione da parte dei piccoli risparmiatori dai tradizionali impieghi in titoli di Stato al mercato azionario.
Processo, quest’ultimo, tutt’altro che frutto della libera scelta del “consumatore/risparmiatore”, bensì preciso risultato di una strategia perseguita riducendo drasticamente ogni attrattiva dei Buoni Ordinari del Tesoro e dando un definitivo colpo d’ala al mercato borsistico attraverso l’imposizione – governo Amato – di una tassa del 27% sugli interessi dei conti correnti, a fronte del 12,5% applicato ai guadagni da investimenti in Borsa. Questo processo è stato accompagnato e sostenuto dagli investitori esteri, che hanno sottoscritto sia titoli di Stato che titoli azionari delle nuove società privatizzate, divenendo in breve tempo attori chiave del sistema finanziario, fino a diventare, nell’attualità in corso, causa principale della sua odierna crisi verticale.
Contrariamente all’obiettivo più volte sbandierato di voler sviluppare la diffusione di un forte azionariato popolare e di affermare anche in Italia il modello delle public company, le politiche di privatizzazione hanno inoltre comportato processi di forte concentrazione – come del resto già avvenuto in Gran Bretagna – determinando soprattutto un accentramento del controllo, anche in assenza di una concentrazione della proprietà: allora come oggi, diversi gruppi industriali – e sempre più finanziari – controllano le società quotate pur senza possederne neppure lontanamente la maggioranza delle azioni.
Nei primi dieci gruppi quotati in Borsa, il capitale controllato è pari a quasi tre volte quello posseduto, e questo è reso possibile dal cosiddetto sistema “delle scatole cinesi”: il possesso da parte di una holding del 51% di una società, che a sua volta possiede il 51% di un’altra, la quale possiede il 40% di un’altra ancora, che possiede il 30% di un’ultima società, quella che realmente interessa. Solo per fare un esempio, con questo sistema, Tronchetti Provera ha ottenuto il controllo della Olivetti – e quindi di Telecom e Tim – pur avendo comprato solo il 29% delle azioni della società. Dentro questo modello, aldilà delle favole sulla democrazia economica, si comprende bene quale possa essere il ruolo dei piccoli investitori: mettere i soldi nella società, permettendo agli azionisti maggiori di poterla controllare senza doverla possedere.
Decisamente pesante è stato l’impatto sociale delle privatizzazioni sul versante dell’occupazione e riguardo alle conseguenze per gli utenti.
Nel mondo del lavoro, le privatizzazioni hanno coinvolto 225.000 lavoratori, dei quali 125.000 nel settore delle telecomunicazioni, 25.000 in quello siderurgico, 24.000 in quello meccanico, 22.000 nell’alimentare e della distribuzione, 14.000 nei trasporti e infrastrutture.
Nel contempo, i cittadini si sono trovati di fronte ad un generalizzato peggioramento della qualità dei servizi e ad un costante aumento dei prezzi, in particolare nei settori dei servizi bancari, di quelli infrastrutturali (autostrade) e delle utilities (acqua, energia e gas), con tariffe notevolmente più elevate in proporzione a quelle applicate dagli altri paesi europei.
Di fatto le privatizzazioni non hanno fatto altro che consentire il trasferimento di ciò che prima era in mano pubblica – dunque di proprietà dei cittadini attraverso lo Stato – ad alcune poche mani private, spesso di gruppi finanziari che non aspettavano altro che settori monopolistici ad alta redditività per poter ottenere profitti con rischio industriale nullo.
Emblematico da questo punto di vista il caso delle autostrade: un vero e proprio regalo al gruppo Benetton, che ha ottenuto una rendita garantita con un rischio imprenditoriale nullo; ha potuto così permettersi di attuare investimenti minimi e contare su tariffe più alte della stessa inflazione, mentre il contribuente ha continuato a farsi carico delle spese per la rete in aree meno ricche e più a rischio (autostrada Salerno – Reggio Calabria e grande viabilità interregionale).
Da un punto di vista strategico-economico, le privatizzazioni hanno prodotto anche il nefasto risultato di segnare per il nostro Paese l’ultimo passo del processo generale di deindustrializzazione avviato un trentennio prima, completandolo con uno specifico processo di destatalizzazione.
Con lo slogan “privato è bello, il pubblico non funziona”, si sono messi nelle mani di alcuni privati, importanti settori strategici come quello bancario ed assicurativo, delle telecomunicazioni, siderurgico ed alimentare, continuando ad affermare come il processo di privatizzazione abbia riguardato primariamente l’industria pubblica in difficoltà, quando tutti i dati economici dimostrano il contrario: il 64,8% delle aziende privatizzate apparteneva ai settori bancario assicurativo e delle telecomunicazioni, finanziariamente remunerativi già sotto la gestione pubblica.
Ma i dati sono nulla a fronte del fondamentalismo ideologico, che ha attraversato e permeato tutte le culture politiche ed amministrative.
Ed è stata soprattutto la sinistra, tesa a far dimenticare la colpa di aver voluto in passato cambiare il mondo e bisognosa di farsi accreditare come affidabile dai mercati finanziari, ad interiorizzare le privatizzazioni come mito riformista e modernizzatore, e ad offrire in pasto ai gestori della finanza attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa.
Nonostante i disastrosi risultati a livello economico, occupazionale e sociale, ormai da diversi anni è in atto addirittura un tentativo di radicalizzare le politiche di privatizzazione, coinvolgendovi altri importanti settori di rilievo sociale, come previdenza, sanità, istruzione, poste, trasporti e servizi pubblici locali.
Questa volta senza bisogno di salire a bordo di un fastoso quanto pittoresco panfilo reale, bensì occupando le grigie stanze del Ministero dell’Economia: è lì che, a fine settembre 2011, l’allora ministro Tremonti ha chiamato a raccolta i grandi investitori italiani ed internazionali, il gotha del sistema bancario e delle investment banks globali per sottoporre loro una sorta di “Britannia 2”, ovvero un altro mastodontico processo di dismissione del patrimonio pubblico del Paese, questa volta totalmente incentrato sul patrimonio immobiliare demaniale e comunale e sulle utilities locali.
Piano ripreso con vigore dal successivo governo “tecnico” guidato da Mario Monti con l’obiettivo, naturalmente, di ridurre il debito pubblico e promuovere la crescita del Paese.
La stessa strategia seguita dai primi violini dell’orchestra, che continuarono a suonare mentre il Titanic andava inesorabilmente a sbattere contro l’iceberg.
(30 aprile 2013)
http://www.corriere.it/economia/13_giugno_01/adusbef-rc-auto_dc267586-cab1-11e2-ac00-d808e70c9e2d.shtml#.UapiCcageSU.facebook
In 18 anni, dal 1994 al 2012, le tariffe delle polizze obbligatorie Rc Auto hanno raggiunto aumenti del 245% per le auto e fino al 480% per le due ruote. Sono i calcoli di Adusbef -Federconsumatori che rimarcano come la spirale dei rialzi abbia fatto salire a 4,5 milioni il numero dei veicoli non assicurati. «In Italia – si legge in un rapporto delle due associazioni dei consumatori – la Rc Auto si mangia il 6,5% dello stipendio, il doppio della media Ocse e il triplo dell’Inghilterra».
LIBERALIZZAZIONE – «Prima della liberalizzazione tariffaria del 1994, sotto il regime dei prezzi amministrati, – sottolineano Elio Lannutti, presidente di Adusbef, e Rosario Trefiletti che guida la Federconsumatori-gli assicurati pagavano in media 700.000 lire, il controvalore di 361 euro per assicurare un’auto di media cilindrata fino a 1.800 Cc. Dodici anni dopo, nel 2006, il costo medio della stessa polizza per un auto di fascia media, non contando le punte estreme come la Campania, è lievitato a 868 euro, con un rincaro del 140,5 per cento, per passare a 1.250 euro nel 2012, con un aumento a 889 euro secchi (+190%) stimati nel 2013, a differenza di altri Paesi Ue, come Francia, Spagna e Germania, dove gli aumenti registrati negli stessi anni, non hanno mai superato la soglia dell’87%».
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http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/03/31/croce-rossa-privatizzata-protesta-dei-lavoratori-meno-soldi-e-servizio-peggiore/272337/
Inizia oggi il presidio ad oltranza per le centinaia di dipendenti della Croce Rossa piemontese. Un decreto del governo Monti ha dato il via alla privatizzazione delle Cri. Tra gli effetti dell’attuazione del decreto c’è il passaggio, per i dipendenti, da un contratto pubblico a uno privato. “Ci tagliano il 30 per cento dello stipendio – spiega Gianni Perotta della Cgil- senza averci interpellato. Far diventare la Croce Rossa un ente privato significa trasformaci in un’azienda a fine di lucro. Questo avrà delle ripercussioni sulla qualità del servizio”. In un primo momento la privatizzazione interesserà oltre 4mila dipendenti su tutto il territorio nazionale: “Stiamo parlando del 30 per cento in meno – dice un manifestante – su uno stipendio da 1500 euro. Intanto il nostro presidente nazionale guadagna in un anno quello che noi percepiamo in 20 anni di lavoro”. Negli ultimi anni si sono susseguiti diversi scandali legati alla gestione della Croce Rossa, il più importante quello della Regione Sicilia, dove è intervenuta anche la Corte dei Conti. La Cri siciliana è già stata privatizzata già da alcuni anni, permettendo l’assunzione di oltre 3mila dipendenti, molti a tempo indeterminato, con un rapporto che superava le dieci unità per ogni ambulanza a disposizione sull’isola. La privatizzazione voluta da Monti doveva risolvere le carenze strutturali del più grande ente umanitario italiano che da si è ormai trasformato in un carrozzone parastatale che controlla poco e male i comitati locali. Non esiste, per esempio, una tesoreria unica a livello nazionale, che controlli l’operato di ogni singolo comitato lasciando così la possibilità di creare buchi di bilancio che sommati tra loro superano i dieci milioni di euro di Cosimo Caridi
http://www.wallstreetitalia.com/article/1708421/in-italia-anche-le-liberalizzazioni-sono-un-flop.aspx
In Italia anche le liberalizzazioni sono un flop
Conconcorrenza sana, nuova occupazione e rlancio dei consumi: nessun obiettivo si può dire raggiunto. Consumi -28,5 miliardi di euro.
Concorrenza, nuova occupazione e rlancio dei consumi: nessun obiettivo si può dire raggiunto. Consumi -28,5 miliardi di euro tra 2012 e 2013.
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Concorrenza, nuova occupazione e rlancio dei consumi: nessun obiettivo si può dire raggiunto. Consumi -28,5 miliardi di euro tra 2012 e 2013.
ROMA (WSI) – “La liberalizzazione – spiega Mauro Bussoni, segretario generale di Confesercenti, intervenendo a Senigallia in un dibattito sui temi della deregulation organizzato dalla Regione – avrebbe dovuto stimolare la concorrenza, favorire nuova occupazione e rilanciare consumi attraverso l’incremento delle occasioni di acquisto per le famiglie italiane”.
“Constatiamo che l’intervento non ha raggiunto alcuno dei tre obiettivi: nel biennio in cui è stato in vigore la spesa delle famiglie è crollata come non mai nella storia della Repubblica italiana, mentre i posti di lavoro offerti dal settore, sotto forma di occupazione dipendente ed indipendente, sono diminuiti drammaticamente”.
Anche sul fronte della concorrenza, secondo il segretario Confesercenti, “l’effetto della liberalizzazione è stato controproducente: la concentrazione dei consumi nei weekend ha favorito solo la grande distribuzione, contribuendo all’aumento dell’erosione di quote di mercato della gran parte dei piccoli esercizi. Che non possono sostenere l’aggravio di costi, diretto ed indiretto, in particolare a valere sul fattore lavoro, derivante da un regime di apertura continua che non ha eguali in Europa e che ha portato ad un accelerazione dell’emorragia di imprese nel settore: nei primi due anni di applicazione della norma si registra un saldo negativo di più di 38mila unità tra aperture e cessazioni di attività”. Un ulteriore colpo a un settore “già messo a dura prova dalla lunga crisi dei consumi del nostro Paese, come testimoniano i 550mila negozi sfitti che abbiamo rilevato in Italia. E nemmeno il 2014 lascia ben sperare: nei primi 5 mesi dell’anno ci sono state già oltre 23mila cessazioni, per un saldo negativo di oltre 12mila unità”, ha aggiunto.
“Bisogna subito fare un passo indietro – conclude Bussoni – : tornare alla regolamentazione degli orari dei negozi è una scelta necessaria, che garantisce un’equa concorrenza fra le diverse forme distributive. Siamo felici che la nostra proposta di ripensare le liberalizzazioni, avanzata più di un anno fa, abbia finalmente rotto il muro del silenzio. Ora si vada avanti, per risolvere un problema che è allo stesso tempo economico e sociale”.
(TMNews)
http://www.adnkronos.com/soldi/economia/2014/07/05/tariffe-anni-rincari-record-per-acqua-rifiuti-pedaggi-aumenti-fino-all_P1zEoF1gGc3y5zRlbL8SXM.html
Articolo pubblicato il: 05/07/2014
Negli ultimi 10 anni, le tariffe dei principali servizi pubblici hanno registrato un aumento record. E’ il caso dell’acqua, aumentata dell’85,2 per cento; dei rifiuti, +81,8 per cento; dei pedaggi autostradali, +50,1 per cento; dei trasporti urbani, +49,6%.
A denunciarlo è la Cgia, l’associazione degli artigiani di Mestre, nel sottolineare come “purtroppo, le liberalizzazioni non hanno prodotto gli effetti sperati”. Tra le 10 voci prese in esame in questa analisi, solo i servizi telefonici hanno subito una diminuzione: -15,9 per cento.
”Nonostante i forti aumenti registrati dalle bollette dell’acqua -sottolinea il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi- la nostra tariffa rimane la più bassa d’Europa. La stessa considerazione può essere fatta per i biglietti ferroviari: anch’essi sono tra i meno cari in Ue. Preoccupa, invece, il boom registrato dall’asporto rifiuti. Nonostante in questi ultimi sei anni di crisi economica sia diminuita la produzione di rifiuti e sia aumentata la raccolta differenziata, le famiglie e le imprese hanno subito dei rincari ingiustificati”.
“Gli aumenti del gas -prosegue Bortolussi- hanno sicuramente risentito del costo della materia prima e del tasso di cambio, mentre l’energia elettrica dell’andamento delle quotazioni petrolifere e dell’aumento degli oneri generali di sistema, in particolare per la copertura degli schemi di incentivazione delle fonti rinnovabili. I trasporti urbani, invece, hanno segnato gli aumenti del costo del carburante e quello del lavoro. Non va dimenticato che molti rincari sono stati condizionati anche, e qualche volta soprattutto, dall’ aggravio fiscale . Tuttavia, nonostante i processi di liberalizzazione avvenuti in questi ultimi decenni abbiano interessato gran parte di questi settori, i risultati ottenuti sono stati poco soddisfacenti. In linea di massima oggi siamo chiamati a pagare di più, ma la qualità dei servizi non ha subito miglioramenti sensibili”.
Pur riconoscendo il limite di questa comparazione, l’Ufficio studi della Cgia fa notare che tra i settori presi in esame in questa elaborazione quello dei taxi è l’unico ad avere le tariffe totalmente amministrate: in altre parole, queste ultime sono definite attraverso una delibera comunale. Ad esclusione del servizio telefonico, che nell’ultimo decennio ha registrato una contrazione dei prezzi di quasi il 16 per cento, il servizio taxi ha subito l’ incremento percentuale più contenuto tra tutte le voci analizzate.
L’ultima parte dell’analisi elaborata dall’Ufficio studi della Cgia ha preso in esame l’aumento delle tariffe registrato da alcune voci nel periodo intercorso dall’anno di liberalizzazione fino al 2013. Ebbene, le assicurazioni sui mezzi di trasporto sono aumentate del 197,1 per cento (4 volte in più dell’inflazione), i pedaggi autostradali del 62,7 per cento (1,7 volte in più dell’inflazione), i trasporti ferroviari del 57,4 per cento (1,7 volte in più dell’inflazione), il gas del 53,5 per cento (2,3 volte in più dell’inflazione), mentre i servizi postali hanno subito un incremento del 37,8 per cento pressoché uguale a quello registrato dall’inflazione.
”Sia chiaro -conclude Bortolussi- noi non siamo a favore di un’economia controllata dal pubblico. Ci permettiamo di segnalare che le liberalizzazioni hanno portato pochi vantaggi nelle tasche dei consumatori italiani. Anche perché in molti settori si è passati da un monopolio pubblico ad un regime oligarchico che ha tradito i principi legati ai processi di liberalizzazione. Pertanto, invitiamo il Governo Renzi a monitorare con molta attenzione quei settori che prossimamente saranno interessati da processi di deregolamentazione. Non vorremmo che tra qualche anno molti prezzi e tariffe, che prima dei processi di liberalizzazione/privatizzazione erano controllati o comunque tenuti artificiosamente sotto controllo, registrassero aumenti esponenziali con forti ricadute negative per le famiglie e le imprese”.
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