La distruzione dello Stato Sociale attraverso la catastrofe delle liberalizzazioni privatizzazioni in Italia

banchieri

di Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà www.movisol.org

Grazie all’analisi di seguito proposta, l’idea per cui le liberalizzazioni e le privatizzazioni portino benefici
all’economia, viene totalmente confutata.
Si dimostrerà che:

  1. le liberalizzazioni portano ad un aumento dei prezzi;
  2. le liberalizzazioni portano alla distruzione di posti di lavoro ed all’abbassamento degli stipendi dei lavoratori e
    dei fatturati delle piccole imprese;
  3. la liberalizzazione-privatizzazione dell’impresa pubblica nel periodo 1992-2000 non è stata conseguenza
    dell’inefficienza economica;
  4. i processi di liberalizzazione-privatizzazione non hanno minimamente migliorato la capacità produttiva italiana;
  5. le liberalizzazioni favoriscono i concentramenti di capitale in poche ricchissime mani;
  6. l rendimento finanziario delle aziende privatizzate è stato peggiore rispetto alla generalità del mercato
    finanziario italiano.

Il processo di liberalizzazioni-privatizzazioni prese avvio in Italia nel 1992. La motivazione ufficiale che portò a questa fase di stravolgimento degli assetti proprietari dell’impresa pubblica nazionale fu quella dell’elevato debito pubblico che andava ridotto. A ciò si aggiungeva e si legava, la questione di una maggiore “libertà” del mercato, con cui la preminente presenza pubblica in settori strategici e non, confliggeva. Questa stagione prese avvio in concomitanza ad alcuni fatti che resero caldissima la situazione politica e sociale italiana: 1) l’operazione giudiziaria “Mani pulite”, che stravolse completamente il quadro politico italiano portando alla sostanziale sparizione dei partiti che costituivano il cosiddetto Pentapartito; 2) gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino; 3) l’attacco alla lira ed alle altre valute europee
da parte di alcuni insider guidati dallo speculatore George Soros, che portarono ad una forte svalutazione delle stesse ed alla conseguente distruzione del Sistema Monetario Europeo (SME).
Nel gennaio del 1993 l’Executive Intelligence Review pubblicò un documento intitolato “La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni italiane: il saccheggio di un’economia nazionale”. In quello studio, inviato ad alcuni organi di
stampa, alle forze politiche ed alle istituzioni, si delineava un quadro preoccupante di attacco all’economia italiana nel contesto della cosiddetta “globalizzazione dei mercati”, cioè la realizzazione di un unico sistema economico mondiale in cui non vi sarebbe stato più alcun controllo sui movimenti e sulla creazione di capitali. In quel documento si riferiva
di un episodio passato inosservato, e che invece rivestiva una grandissima importanza. II 2 giugno 1992 si svolgeva una riunione semisegreta tra i principali esponenti della City, il mondo finanziario londinese, ed i manager pubblici italiani,
rappresentanti del Governo di allora e personaggi che poi sarebbero diventati ministri o direttori generali nei Governi Amato, Dini, Ciampi, Prodi, D’Alema (ma anche Berlusconi, per quanto riguarda la centrale figura di Mario Draghi). Oggetto di discussione: le privatizzazioni. Questa riunione si tenne a bordo del panfilo della Corona inglese, il “Britannia”.

Alla luce di quanto il complesso finanziario-mediatico-politico va oggi chiedendo – le liberalizzazioni-privatizzazioni appunto – possiamo individuare almeno due fasi di questo progetto che possiamo chiamare “Operazione Britannia”: la prima fase si occupò della svendita5 dell’Iri, di Telecom Italia, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina, Credito italiano, Autostrade,l’industria siderurgica ed alimentare pubblica; la seconda fase – in corso di attuazione – punta invece al settore della previdenza, della sanità, dei trasporti (ferrovie, trasporto pubblico di linea, trasporto navale, taxi), a quello delle utilities (aziende municipalizzate nei settori acqua, elettricità, gas) e ad altre funzioni di rilievo pubblico.
Se al livello dell’economia nazionale l’“Operazione Britannia” mette nelle mani di poche ricchissime famiglie ciò che prima era pubblico, con la dannosa conseguenza di diminuire le entrate dello Stato, i posti di lavoro e dunque il monte
salari, creando così le condizioni per “riformare” in senso peggiorativo e non costituzionale il welfare (sanità,pensioni, giustizia, istruzione, ecc.), è sul superiore livello strategico internazionale che troviamo il grilletto che ha portato all’accelerazione di questa distruttrice fase della storia dello Stato sociale moderno.

Attraverso la finanziarizzazione dell’economia mondiale, interi settori dell’economia reale vengono “cooptati” dal grande banco da gioco della finanza globale che per non crollare su sé stessa necessita continuamente di essere rifinanziata. Una grande “catena di Sant’Antonio” a livello globale, dove il gioco finisce quando l’ultimo della catena resta col cerino in mano, svelando che si è trattato di un grande bluff dove i valori finanziari espressi non esprimevano vera ricchezza reale.

Quando liberalizzare serve solo a creare monopoli privati

Sono sotto gli occhi di tutti, eppure si fa fatica a prenderne coscienza, gli effetti delle liberalizzazioni-privatizzazioni.
L’incapacità dell’uomo moderno a valutare i fenomeni per quello che sono è dovuta ad uno snaturamento della persona umana che da essere cognitivo e creativo è stata addormentata e limitata ad essere un soggetto meramente percettivo senza una propria capacità critica. Il complesso culturale dice che la neve è nera, e per la stragrande maggioranza delle persone la neve è nera.
La normativa di liberalizzazione in materia di commercio stilata durante gli anni ’90 – con particolare riguardo all’eliminazione dei vincoli di distanza per l’apertura di un’attività commerciale – ha di fatto rappresentato la porta d’ingresso a poche grandi catene commerciali che si sono impossessate del 70% del mercato. Ciò ha comportato la moria delle piccole attività commerciali, i cui fondi su strada si sono trasformati o in locali sfitti o in piccole abitazioni.
Secondo il Rapporto 2006 Unioncamere il fatturato del commercio per le piccole attività è stato nel 2003 di -2,8%, nel 2004 di -2,9% e nel 2005 di -2,4%, mentre per la grande distribuzione è stato nel 2003 di +3,5%, nel 2004 di
+2,1% e nel 2005 di +1,6%. Il Rapporto 2007 sulla Natalità e mortalità delle imprese italiane rincara la dose affermando:

Il tasso di crescita del trimestre (+0,25%), il più contenuto degli ultimi otto anni con riferimento al periodo giugno-settembre, è frutto di una natalità sostanzialmente in linea con gli anni passati (+1,36%) e di una mortalità che, nel trimestre scorso, ha fatto registrare il record negativo dal 2000 (+1,12%)… la selezione ‘darwiniana’ innescata dai processi di globalizzazione dei mercati sta operando in profondità sulle imprese più piccole, più isolate e prevalentemente localizzate al Sud. Diventa fondamentale, quindi, l’intervento delle istituzioni … per accompagnare questo percorso e non disperdere l’importante patrimonio di abilità delle piccole imprese italiane.

Sempre da UNIONCAMERE si ricava per il 2007 – nonostante i comunicati stampa cerchino di annebbiare la negatività della situazione ricostruita, con titoli positivi – che nel giro di un anno sono chiuse 390.209 imprese (oltre il 5% del
totale) con un differenziale natalità/mortalità comunque in crescita dello 0,75% (in brusca frenata rispetto all’1,21% del 2006) e che sarebbe però un dato negativo senza le nuove 54.463 società di capitali. Le piccole aziende, quelle
rappresentate dalle società di persone e dalle ditte individuali, infatti hanno registrato saldi negativi: -13.726 le ditte individuali del 2007 rispetto al 2006 e -341 le società di persone. Ciò vuol dire che l’imprenditore non se la sente più di
rischiare di essere responsabile nei confronti dei terzi anche con il proprio patrimonio personale, vista la facilità di incorrere in un fallimento aziendale e preferisce puntare sulla più sicura forma giuridica della società di capitali che
limita la responsabilità patrimoniale al solo patrimonio sociale. Ciò però fa già selezione censuaria ab origine: le società di capitali hanno infatti l’obbligo di dotarsi di un capitale sociale minimo stabilito per legge, cosa di cui invece non vi è bisogno per le ditte individuali e per le società di persone. Ed il dato risulta essere ancor più negativo se si considera che il saldo delle piccole imprese intestate ad extracomunitari è aumentato di 16.654 unità, grazie soprattutto a immigrati provenienti da Cina, Marocco ed Albania. Dunque, senza conteggiare l’imprenditorialità extracomunitaria, il saldo delle ditte individuali intestate a cittadini dell’UE in Italia risulta negativo per -29.970 unità (con prevalenza nei settori dell’agricoltura, del commercio, delle manifatture e dei trasporti). La cosa non può non preoccupare in quanto si tratta di imprese a minor valore aggiunto dove il più basso tasso di rendita imprenditoriale è accettato a causa del più umile tenore di vita a cui sono abituati questi imprenditori stranieri.
Ovviamente se è positivo il fatto che immigrati facciano imprenditorialità nel Paese che li ospita, la lettura puntuale dei dati fa comprendere come il sistema Italia si sia indebolito ulteriormente anche nel 2007.Più genericamente, la metà delle aziende chiude entro il sesto anno di attività.

L’istanza demagogica utilizzata per rendere meritoria agli occhi della popolazione la nuova normativa di liberalizzazione, era quella per cui tutti dovevano avere il diritto di trovare sotto casa il negoziante di scarpe piuttosto che di giocattoli. La normativa parlava di “una più capillare distribuzione dei prodotti sul territorio”. I prodotti invece hanno finito col concentrarsi in centri commerciali che hanno sostanzialmente preso il monopolio del mercato.
Ovviamente di necessità di “una più capillare distribuzione dei prodotti sul territorio” ora non se ne parla più! E’ poi assolutamente falsa l’idea per cui le liberalizzazioni portino ad un abbassamento dei prezzi. Mentre infatti le tariffe sono cresciute meno dei prezzi al consumo, i prezzi dei beni e dei servizi liberalizzati sono cresciuti costantemente più delle tariffe e dei prezzi al consumo.

2002

2003

2004

2005

2006

Aumento tariffe (al
netto energetici)
+0,1 +0,9 +0,9 +1,5 +1,6
Aumento beni e
servizi liberalizzati
(al netto energetici)
+3,8 +3,6 +2,6

+2,0

+1,9
Prezzi al consumo +2,5 +2,7 +2,2 +1,9 +2,1

Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, L’economia italiana nel 2006, pag. 35.

La considerazione solitamente fatta è quella per cui, aprendo il mercato, aumentando l’offerta, i prezzi devono inevitabilmente scendere. In teoria dovrebbe funzionare proprio così, ma nella realtà dei fatti, non essendo possibile una concorrenza pura – tanto di meno se lasciata alle libere dinamiche di mercato – gli operatori più forti finiscono col “mangiare” gli operatori più deboli. Così se in una primissima fase la liberalizzazione produce aumento dell’offerta e diminuzione dei prezzi di erogazione del prodotto o servizio, già nel breve periodo si assiste a fenomeni di acquisizione da parte degli operatori più forti di quelli più piccoli, venendosi così a creare oligopoli (o addirittura monopoli), diminuendo così la concorrenza; a quel punto i prezzi tornano vorticosamente a salire. Ecco che i mercati che
storicamente si sono dimostrati più efficienti sono quelli regolarizzati tenendo presente, come di fatto è nello spirito della nostra Costituzione, 1) il lavoro, 2) la qualità del servizio e prodotto erogato, 3) l’accessibilità al consumo. Non è infatti verosimile pensare che non tutelando primariamente i punti 1) e 2), al consumo possa derivare alcun vantaggio reale.
La normativa di liberalizzazione in materia di locazioni abitative, anch’essa stilata durante gli anni ’90 – con particolare riferimento alla l. 431/98 – ha fatto sì che i canoni d’affitto schizzassero alle stelle. Qui l’istanza demagogica utilizzata fu quella per cui non era giusto che il piccolo risparmiatore che per una vita aveva messo del denaro da parte per comperarsi una seconda casa, non potesse utilizzarla per la figlia appena coniugatasi, per causa di un’esosa normativa a tutela degli affittuari a cui erano concessi troppi anni di godimento dell’immobile prima dell’ esecutività dello sfratto, e per di più pagando canoni troppo bassi. A causa di ciò, si diceva, la gente preferiva tenere sfitto l’immobile. Si fece allora passare l’idea che liberalizzando la normativa, gli immobili da affittare presenti sul mercato sarebbero aumentati, ciò comportando la riduzione dei canoni. E’ ovviamente successo l’esatto contrario.
Questi due esempi di normazione liberalizzatrice sono sintomatici di come le politiche di liberalizzazione inneschino meccanismi che portano al rafforzamento delle posizioni delle categorie più forti.
Si tratta di un fenomeno presente anche in natura. Si pensi ad un bosco con vegetazione fittissima. Difficoltoso sarà il sorgere della vita animale di una certa dimensione, e dunque appetibile. Si pensi però anche alla savana, dove la scarsa
formazione vegetale è di ostacolo al proliferare delle forme animali più deboli e dove a fare da padroni sono gli animali più forti. Infine si pensi a quell’ambiente dove le formazioni vegetali sono a distanze tali da non soffocarsi l’una con
l’altra, tali da consentire il passaggio della luce, e dove dunque ogni formazione animale ha possibilità di svilupparsi in armonia con le più piccole che trovano difesa e rifugio grazie alla vegetazione.
Altrettanto, un’iper-burocratizzazione dei rapporti economici impedisce lo sviluppo dell’economia, ma l’eliminazione di fatto di ogni regola, la deregulation, fa sì che solo gli operatori più forti possano restare sul mercato. Ecco che ciò di cui vi è bisogno per far funzionare le cose in funzione del bene comune, è una migliore  regolamentazione dei rapporti, di modo che ogni genere di operatore possa avere diritto a restare sul mercato in modo dignitoso.

Le privatizzazioni in Italia dal 1992

Per quale motivo agli inizi degli anni ’90 il tema principale della politica italiana divenne “privatizzare la pubblica impresa”? Inizialmente la motivazione addotta era il forte debito pubblico e dunque la necessità di ridurlo. Gli interessi negativi che su di questo maturavano, rappresentavano (ed ancor oggi rappresentano) un gravoso peso per l’economia del nostro Paese. Tuttavia si consideri che dalle privatizzazioni il capitale racimolato fu, tra il ’92 ed il 2000, di 198.000 miliardi di lire (di questi, 87 mila miliardi sono relativi a privatizzazioni propriamente dette, di cui oltre 55 mila miliardi ad aziende industriali). Il debito pubblico italiano nel 2000 era di 2.500.000 di miliardi di lire. Il debito pubblico dunque è stato ridotto appena del 7,92%. Tuttavia quel “ridotto” non corrisponde a verità se si considera che tra le aziende pubbliche vendute vi erano vere e proprie perle del capitalismo italiano (Comit, Credit, IMI, ma anche Eni, Enel,Telecom). Per cui se nell’immediato si sono avute delle entrate, fra l’altro irrisorie, per il futuro le scelte politiche hanno privato lo Stato di importanti entrate di cassa, nonché di assetti industriali che rappresentavano la spina dorsale
dell’economia pubblica nazionale e del sistema di welfare che in parte si reggeva su essa.
Non risultando credibile la prima motivazione addotta alla “necessità” del processo di liberalizzazione-privatizzazione che si intendeva avviare, la motivazione ufficiale a giustificazione delle privatizzazioni divenne successivamente quella di favorire un azionariato diffuso. Tuttavia anch’essa cadde di fronte alla realtà dei fatti. “Le privatizzazioni industriali realizzate con acquirenti italiani si sono caratterizzate per il collocamento di due terzi delle azioni presso singoli investitori (o loro “cordate”) e per il residuo sul mercato; relativamente agli acquirenti esteri, invece, la quota dei singoli è stata del 71% e quella del mercato del 29%.”
Si può dunque rilevare immediatamente come il controllo dei cespiti industriali sia sostanzialmente passato all’operatore pubblico a quello privato. La diffusione tra i piccoli risparmiatori ha riguardato soltanto un terzo del capitale sociale immesso sul mercato. Per cui non può reggere la tesi per cui lo scopo primario delle privatizzazioni fosse quello di attuare un passaggio dalla mano pubblica al pubblico risparmio.
Anche questa seconda motivazione si dimostrò palesemente contrastare con la realtà dei fatti.
L’ultima giustificazione ufficiale alle privatizzazioni divenne allora quella di consentire il rafforzamento della grande industria italiana che doveva essere messa in condizione di affrontare e sostenere la competizione internazionale, al fine di consolidare gli assetti produttivi e occupazionali nazionali. A questo riguardo i casi Eni e Telecom sono sintomatici del fatto che pure queste motivazioni siano state pretestuose e mendaci. Eni per esempio dal ’92 al ’96 ha ridotto il personale del 33,5%, rendendo più inefficiente la gestione produttiva. A fronte di una riduzione dell’1,9% del costo del lavoro, i costi operativi sono comunque aumentati passando dal 72,6% al 73% dei ricavi.
Anche tutte le altre aziende privatizzate hanno proceduto a tagli occupazionali e gli assetti produttivi, che già sotto la gestione pubblica erano molto efficienti, non ne hanno tratto giovamento di sorta. “All’incirca, metà delle imprese ha
registrato un miglioramento e metà un peggioramento o una variazione pressoché nulla.”
Le privatizzazioni italiane che vanno dal 1991 al 2000 sono caratterizzate dal fatto che pur passando sotto ben dieci Governi, sono però state tecnicamente guidate da un’unica figura: l’attuale governatore della Banca d’Italia, Mario
Draghi, direttore generale del Tesoro fino al 2001.
Già “nel periodo 1991-1999, l’economia italiana ha registrato uno sviluppo più contenuto di quello medio dei Paesi Ocse”. Tale differenziale di crescita, come è noto, persiste ancora oggi. Si può poi affermare che la capacità di crescita economica del nostro Paese si è ridotta del 67% dal 1991. Il seguente grafico chiarirà la questione.

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La linea continua discendente, media i valori della produzione industriale dal 1991 ad oggi. Da essa si rileva come se nel 1991 tale valore fosse mediamente dell’1,5%, oggi è intorno allo 0,5%. Dunque, in oltre un quindicennio di
politiche liberiste, la capacità di crescita della produzione industriale italiana è diminuita di due terzi
. A smentita delle tesi liberiste, questa capacità di crescita è stata in ripresa dall’inizio del 2002 alla fine del 2006, quando le politiche di spesa, soprattutto per infrastrutture, sono state più espansive, mentre è precipitata nel 2007, quando la politica del rigorismo finanziario ha ripreso piede.

“Le operazioni del Tesoro italiano hanno contraddistinto dei massimi a livello mondiale: la prima tranche dell’ENEL nel 1999 ha segnato il record per un’IPO sui mercati occidentali, mentre la vendita della Telecom Italia è stata la
maggiore OPV [offerta pubblica di vendita] mondiale che ha condotto ad una privatizzazione”.
Si può dunque tranquillamente affermare che l’approccio seguito per l’attuazione di questo processo di liberalizzazioni privatizzazioni, sia stato radicale. I governi italiani – ma forse è più corretto dire Mario Draghi – hanno dimostrato una capacità a saper raggiungere l’obiettivo senza tanti fronzoli. Una vera e propria terapia d’urto. Se con la stessa decisione con cui si è lavorato per portare dalla mano pubblica (o da moltissimi ma piccoli portatori d’interesse) a pochissime mani private una fetta importantissima del p.i.l., si lavorasse per ridare sviluppo all’economia nazionale e ridare esecuzione all’art. 3, 2° co. della Costituzione, la vita dei cittadini italiani non avrebbe niente a che fare con l’attuale no future generation.

Trovate il resto del dossier, con spiegati i singoli casi aziendali qui